La comunità del lavoro, il lavoro della comunità
La comunità del lavoro, il lavoro della comunità
Mi chiamo don Cristiano Re, sono delegato vescovile per l'ambito della vita sociale della mondanità, cioè mi occupo nella diocesi di Bergamo, di coordinare iniziative e progettazioni che stanno attorno ai temi della politica del lavoro, della pace, della giustizia, della cooperazione internazionale, delle migrazioni, del dialogo interreligioso ecumenico e altro.
Ripensare le relazioni
L'inversione di marcia che abbiamo visto durante la pandemia ha lasciato in noi dei segni molto importanti. Ci siamo dimenticati velocemente cosa significa non poter uscire di casa, tornare alle 22 perché c'è il coprifuoco, il distanziamento, il regolamento, la modalità comunicativa diversa, non per scelta ma per condizione imposta.
Non basta che non ci siano più dei DPCM per dire "adesso finalmente siamo liberi, possiamo costruire le relazioni come volevamo", ma ci restano delle dimensioni molto complicate e complesse.
Siamo così sicuri che dentro di noi non ci sia in modo profondo, forse neanche troppo consapevole, la percezione dell'altro come una malattia o dell'altro come un nemico, dell'altro come una persona rispetto alla quale, innanzitutto, io devo esercitare una protezione o una diffidenza piuttosto che avvicinarmi a lui?
A me sembra che la dimensione delle relazioni debba essere riletta, anche con un serio esercizio di solitudine.
Ecco a me sembra che la dimensione delle relazioni abbia bisogno di essere riletta, ripensata, riqualificata da un punto di vista personale anche con un serio esercizio di solitudine. Bisogna che uno abbia il coraggio di stare da solo e di capire chi è, cosa può essere, dove vuole andare, come si pone nei confronti degli altri, chi sono gli altri per lui.
Seconda dimensione, c'è bisogno di una rielaborazione comunitaria, per cui tu dici: "quali sono i luoghi dentro la mia comunità?". Io faccio il prete, penso per me, penso alla comunità che è il lavoro, penso alla comunità civile, alla comunità associativa, alla comunità amicale, alla comunità politica, dentro i quali io creo degli spazi di rielaborazione dove ci diciamo continuamente che cosa vuol dire stare insieme ed essere comunità.
Un terzo passaggio che mi viene da pensare è legato al fatto che le esperienze drammatiche del dolore, dell'assenza, della morte, del vuoto, della malattia, ci lasciano addosso la necessità e il bisogno di avere dei luoghi di senso dove si dicono parole sapienti sulle grandi questioni della vita. E quindi mi chiedo: “quali sono le parole sapienti che noi sappiamo riconsegnarci per recuperare la nostra umanità, sapendo che se noi non coltiviamo la nostra umanità diventiamo disumani?”.
In conclusione, ci ritroviamo più liberi da alcune costrizioni, da alcune fatiche, da alcune forse paure, ma ci chiediamo per cosa siamo più liberi e da cosa siamo più liberi. In che modo possiamo essere utili? Secondo me noi non dobbiamo essere utili, noi dobbiamo essere persone che insieme agli altri fanno un'esperienza che ci aiuta a crescere nella nostra comunità e nella nostra vita buona e aiuta gli altri.
Un punto di vista diverso sul mondo del lavoro
Lo sguardo per me è molto diverso, io non sono un imprenditore, non faccio parte di associazioni datoriali, non faccio il bottegaio, faccio il prete, però ho avuto occasione in questi ultimi anni di avere a che fare molto con questi mondi. Ascolto chi il lavoro non ce l'ha, chi il lavoro ce l'ha ma non sta bene, chi lavora e sta bene, chi fa l'imprenditore, chi ha fatto un sacco di soldi, chi è fallito, chi è deluso.
Sono figlio di una generazione che per il lavoro ha dato la vita. Esplicitamente c'era la questione del valore del lavoro, della passione tra il lavoro. In che modo, sinteticamente, rispetto a queste cose possiamo considerare il tema del lavoro buono? In che modo il lavoro è buono? Penso che il lavoro buono sia un lavoro per la vita. Cioè in che modo il tuo lavoro è un lavoro vivificante o è un lavoro mortificante? Questi sono dei criteri che secondo me anche un imprenditore si deve porre.
La mia generazione ha dato la vita per il lavoro.
Noi siamo all'interno di quel pezzo importante di chiesa che si chiama dottrina sociale, che si occupa proprio di provare a interrogare i vissuti dell'umano sui grandi temi del lavoro, della politica, dell'economia, del bene comune, pensando al lavoro, già da anni continuiamo a ripeterci, a riflettere, a tentare di costruire alleanze.
I problemi di oggi
Tutto questo ci ricorda che non basta avere delle imprese o un mondo del lavoro che sia capace di mantenere standard alti, tecnologia, innovazione, capacità di collocarsi su dei livelli sovralocali, di internazionalizzarsi secondo i meccanismi dell'economia contemporanea, ma c'è bisogno di tornare a rimettere al centro la questione della vita di tutte le persone che sono al lavoro, che vanno dall'imprenditore, al lavoratore, a quello che presta servizi esterni, a quello che si occupa di stabilire quali sono le leggi perché il lavoro sembri quello giusto.
Non basta avere delle imprese o un mondo del lavoro che sia capace di mantenere standard alti. C’è bisogno di tornare a rimettere al centro la questione della vita di tutte le persone che sono al lavoro.
Mettere al centro la vita delle persone ci chiede di compiere dei passaggi importanti, di passare, ad esempio, dalla centralità del profitto alla centralità del prodotto. Ancora mi capita di sentire moltissimi nostri imprenditori bergamaschi che non hanno ancora affrontato la trasformazione della loro azienda.
Un senso di appartenenza nuovo
Molti imprenditori dicono: "bisogna impegnarsi, fare sacrifici, sentirsi parte della propria azienda, metterci dedizione e devozione". D’altro canto, incontriamo invece le nuove generazioni che ci dicono "ma io la mia vita voglio spenderla per chi? E voglio spenderla per cosa? Cioè io 8 ore al giorno per i migliori anni della mia vita li voglio spendere per chi e per cosa?" Quindi o il lavoro c'entra con la vita oppure io non mi spendo per quella cosa lì.
A me piacerebbe andare da un'impresa che mi dice: “vogliamo bene all'ambiente, alle persone, alla comunità”, gli direi "bene, prova a declinarmi dentro delle storie, dei volti questi valori". Perché se tu sei capace di valorizzare, cioè di dar valore alla vita delle persone, allora le tue persone saranno fedeli.
Se un’azienda è capace di valorizzare, cioè di dar valore alla vita delle persone, allora le persone saranno fedeli al loro posto di lavoro.
In questo discorso, non posso fare a meno di pensare a tutte le persone che vanno in burnout per le pressioni che ricevono al lavoro. Mi sento di dover essere un po' voce anche di queste persone, di questi lavoratori. Per cui quanto vale, quanto costa essere un lavoratore? Lavorare spesso significa rinunciare alla mia famiglia, ai miei figli, al mio tempo e agli anni migliori della mia vita: questioni abbastanza grosse.
Ridare senso comunitario al lavoro
La nostra Costituzione intende il lavoro come lo strumento per eccellenza della partecipazione. Per cui bisogna provare a restituire alla dimensione del lavoro questo carattere di comunità politica, di strumento dove si costruisce un'esperienza, una struttura di giustizia, di partecipazione, di costruzione del bene comune.
Il lavoro è strumento di partecipazione, dove si costruisce esperienza, giustizia, partecipazione e bene comune.
Io sposo volentieri questa tesi della partecipazione dei lavoratori dentro alle aziende. Che siano aziende trasparenti, cioè che sappiano condividere quello che è davvero l'azienda con i propri lavoratori a 360 gradi, una partecipazione che abbia i ruoli apicali - fin dentro ai consigli di amministrazione - attribuiti anche a dei lavoratori che hanno invece ruoli più di base.
Il lavoro fa la comunità e la comunità fa il lavoro. Questi due aspetti, secondo me, vanno messi assieme. La prima forma di economia circolare, secondo me, si fonda proprio sul rapporto tra imprese e territorio fatto di tutte quelle alleanze che noi andiamo spesso a tentare di costruire con la capacità di migliorare la formazione delle persone, le soft skills.
Il lavoro fa la comunità e la comunità fa il lavoro: la prima forma di economia circolare.
A me pare che uno dei compiti importanti del nostro essere comunità nei confronti del lavoro sia davvero mettersi al servizio della costruzione di un lavoro buono, dandogli un'anima e permettendo al lavoro di restituire un'anima al territorio. Dall'avvento degli smartphone nella vita delle persone, io non ho avuto semplicemente uno strumento in più. Il modo di vita, di relazionarsi, di acculturarsi delle persone è cambiato. Da un po' di tempo la questione della digitalizzazione ci mette un po' in allerta su alcune questioni molto grosse.
Intelligenza artificiale e intelligenza umana
Innanzitutto, dobbiamo chiarire che cosa intendiamo quando parliamo di intelligenza. Perché l'intelligenza è uno strumento, è uno scopo dentro all'essere umano. Quindi, come posso immaginare che questa intelligenza possa essere artificiale?
Io non posso immaginare di intraprendere una riflessione sul tema dell'intelligenza artificiale senza ridirmi che cosa è l'intelligenza per l'uomo. Altrimenti io attribuisco una funzione che è propriamente costruttiva e costitutiva dell'umanità, a una dimensione che può essere semplicemente funzionale o tecnica. Non può essere che la mia intelligenza diventi uno strumento tecnico, non gestito neanche più da me, che mi dice delle cose.
L’intelligenza umana non può diventare uno strumento tecnico.
A me sembra che abbiamo la responsabilità di presidiare questi passaggi perché siano sempre passaggi a servizio della nostra umanità, del nostro essere umani, preservando ciò che è lo specifico della nostra umanità, non cedendo ad altro, o ad altri, o a delle macchine super-performanti il tratto specifico della nostra umanità.